Fare memoria della storia: carità e giustizia a Padova

 

Carità e giustizia a Padova hanno reso possibili nuovi modi di essere città e società, con soluzioni accoglienti e inclusive. Nel tempo si sono rivelati laboratori di nuova umanità. Hanno prefigurato forme originali per promuovere lo sviluppo sociale e spirituale della città. È possibile anche oggi, riconoscendo e valorizzando quello che da problema può diventare soluzione.

Oggi come ieri non mancano le sfide. Sono sfide umane e sociali che possono essere affrontate con risposte positive. L’impoverimento di tante persone, le migrazioni di popoli che ci raggiungono, che cercano la speranza in Europa, il futuro negato ai nostri giovani… ci chiedono di farlo insieme con i poveri. Vivono più di tutti il peso delle scarse opportunità, del poco lavoro, di una società che non ha a cuore il proprio domani.

In passato le domande dei poveri hanno animato la carità e le sue opere hanno preparato la giustizia. Oggi come ieri una giustizia senza carità non ha futuro, non spinge il proprio sguardo oltre il breve periodo, privilegia gli utili a breve, dissipa le risorse a vantaggio di pochi, non alimenta le nostre radici solidali, non fa dell’incontro tra carità e giustizia un terreno fertile per promuovere la crescita di nuova umanità.

Per questo, nella prima fase del progetto, tutti sono chiamati a ripercorrere la memoria. È memoria della città, di generazioni di persone, di fede e carità, per valorizzarla, condividerla in modi positivi. È bene di tutti a disposizione anche oggi, consapevoli che è nato dall’amore e non dall’odio, riconoscendo valore e dignità a ogni persona anche se debole, povera, indifesa.

È con questa consapevolezza che il progetto chiede alle istituzioni ecclesiali e civili di riconoscere nella propria storia le tante gemme di carità che si sono trasformate in frutti di giustizia, in forme di socialità più solidale, riconoscendo in ogni persona capacità e potenzialità da valorizzare. Le domande a cui dare risposta sono:

- Come l’azione di carità si è trasformata in forme sociali, cioè in risposte organizzate ai problemi umani fondamentali (di salute, istruzione, protezione sociale…), con capacità di accoglienza e promozione umana delle persone, di ogni persona, anche quelle più deboli?
- Da dove sono venute le capacità, le risorse, le possibilità di testimoniare la carità e di trasformarla in giustizia, con servizi e risposte umanamente più redditizie, con soluzioni sociali innovative rivolte a tutti e non solo ad alcuni?
- Come le profezie degli innovatori, le loro testimonianze di fede si sono moltiplicate in modi sostenibili, “con i poveri”, grazie a soluzioni capaci di una socialità più inclusiva?
- Come anche oggi interpretare questa sfida, con riferimento a quali bisogni, problemi, emergenze, difficoltà che soffocano la speranza di molte persone e famiglie?
- Come valorizzare la dignità di ogni persona, anche delle persone più deboli, con pratiche sociali positive, necessarie anche oggi per il presente e il futuro della città?

Le risposte a queste domande consentiranno di condividere le potenzialità a disposizione, capitali sociali conosciuti e nascosti, valori e talenti da investire. Il riconoscimento e la condivisione delle radici di carità e giustizia consentirà di costruire ponti, oltre le mura che ci separano dai poveri, con pietre ricche di memoria, di capacità originali, che gli abitanti di Padova hanno saputo esprimere nella loro storia. È il futuro che ci aspetta, se sapremo metterlo a disposizione delle nuove generazioni.

La possibilità di condividere tutto questo potrà alimentare la fiducia necessaria per affrontare una sfida così impegnativa. L’aiuto necessario ci verrà soprattutto dal parlarne e dall’ascolto in una realtà dove i mezzi per comunicare non mancano. L’odio e la violenza li occupano senza ragione e non sarà facile dare spazio alle risposte positive. Saranno utilizzate per promuovere fiducia, per favorire le condivisioni possibili, con parole capaci di oltrepassare il fragore comunicativo della violenza. Anche oggi oscura i problemi sociali, facendo dei poveri una minaccia, uno scarto, un ostacolo allo sviluppo sociale ed economico. Sono invece la strada per cercare soluzioni a problemi che sono di tutti, valorizzando l’apporto di chi è povero, li vive in prima linea e può contribuire a meglio affrontarli.

 

Storia e radici di carità e giustizia a Padova

La solidarietà e l’attenzione agli ultimi nella Chiesa padovana possono contare su radici profonde. Già prima del fatidico anno Mille, il vescovo dell’epoca Gauslino affida la rinascita del tempio intitolato a Santa Giustina a Ingelberto, abate di una comunità di monaci che seguono la regola benedettina cistercense, aprendo così il ricco capitolo di una presenza che dura ancor oggi, e che ha da subito numeri importanti: da Santa Giustina, nell’XI secolo, dipendono già 16 monasteri sparsi nel territorio. Gran merito della ricostruzione sulle macerie morali e materiali di quella stagione, seguita alle devastanti invasioni barbariche, si deve proprio ai benedettini, fedeli al doppio binario prescritto dal loro fondatore: “ora” (prega), ma anche “labora” (datti da fare).

Su questo impianto poggia una lenta ma solida ricostruzione, fisica ma soprattutto morale, ispirata a una sostanziale alleanza tra potere civile e religioso (sulla quale si innesterà due secoli dopo la predicazione di Antonio), e che fa leva sul progressivo miglioramento del reddito e della conseguente posizione sociale di fattori, fittavoli, colòni e perfino servi, e sul consolidamento dei patrimoni di piccoli e medi possidenti. Sono ancora i benedettini in particolare a bonificare la terra, strappandola a paludi e acquitrini, a insegnare ai contadini come ricavare il proprio sostentamento dal lavoro dei campi, a spiegare alla gente come si costruiscono le grandi case coloniche – le tipiche masserie – utilizzate come luogo della vita di famiglia e al tempo stesso della produzione. Quelle sopravvissute per secoli, e dove di sera la piccola comunità locale si ritrova per “far filò”.

Nel Duecento a Padova arriva Antonio, un immigrato diremmo oggi, che con i celebri quaresimali mobilita l’intera società cittadina e attua una riconciliazione tra religione e potere civile: è la sua predicazione tra l’altro a indurre il Comune di Padova a modificare gli statuti a favore degli insolventi. Antonio rimane a Padova solo un anno, ma è il primo esempio del “santo subito”. Non è però un fenomeno limitato al Santo. Giordano Forzatè, priore benedettino, rinuncia alla nomina a vescovo di Ferrara per stare con la sua gente; e nel 1237 contrasta con decisione il regime tirannico imposto a Padova da Ezzelino, al punto da venire incarcerato da quest’ultimo. Anch’egli amato e venerato per la sua testimonianza di fede e di carità, dopo la morte verrà proclamato beato. Sempre in quell’epoca, va ricordata la presenza importante dei principali ordini mendicanti nelle chiese degli Eremitani, dei Carmini e di Sant’Agostino.

Un evento significativo accade nel Quattrocento: è il 1414 quando si procede alla posa della prima pietra dell’ospedale di San Francesco, a fianco dell’omonima chiesa e del convento, gestito dai frati francescani, e pensato e realizzato con criteri assolutamente innovativi per l’epoca, sia sotto l’aspetto urbanistico che sotto quello terapeutico e assistenziale: non più “hospitium” di pellegrini come gli altri dell’epoca, ma luogo di presa in cura della persona in collaborazione con l’università; gli studenti per la prima volta sono portati a fare pratica in corsia. Sempre nel Quattrocento, si verifica la nascita del Monte di Pietà, per opera di un frate francescano feltrino, Martino Tomitano, beato Bernardino da Feltre: un’istituzione finanziaria senza scopi di lucro, nata in Italia sul modello delle “Arcas de misericordia” spagnole, per iniziativa dell’ordine dei frati francescani. La si può considerare una forma di microcredito ante litteram, che garantisce prestiti di piccola entità a condizioni decisamente favorevoli rispetto a quelle di mercato, richiedendo in cambio un modesto pegno, venduto all’asta nel caso in cui la somma non venga restituita, di solito nel giro di un anno. A testimoniare l’importanza e il ruolo che la Chiesa le assegna, c’è la presenza all’apertura della sede padovana dello stesso vescovo dell’epoca, Pietro Barozzi.

Importante per la Chiesa padovana è il Seicento, per la presenza del vescovo Gregorio Barbarigo, Il suo pensiero è condensato in una lettera inviata ai parroci: «Per me voi studiate per predicare, per me vigilate, per me voi sudate; tutto per me stesso lo fate, perché io stesso a ciò sono obbligato». La sua azione poggia su tre pilastri: formazione del clero, visite pastorali, istruzione religiosa del popolo. Quando fa il suo ingresso in città, nel 1664, il seminario conta su appena 12 alunni. Sei anni dopo, l’istituto ha una nuova e funzionale sede; e i futuri sacerdoti che lo frequentano sono già diventati 106, per passare rapidamente a 200. Non solo: è Barbarigo a farne una fucina anche di missionari, caratteristica questa che tuttora rappresenta una delle note salienti della Chiesa padovana.

Altro vescovo significativo nel Settecento è Niccolò Antonio Giustiniani. Fa il suo ingresso in diocesi nel 1772, e quasi subito decide di dare avvio alla costruzione di un nuovo e moderno ospedale, adeguato agli sviluppi della medicina nella cura e soprattutto nei criteri di assistenza ai malati. La scelta cade su un’area vicina a Pontecorvo, lasciata libera dall’ordine dei Gesuiti dopo il loro scioglimento decretato nel 1773. Il vescovo lo fa senza finanziamenti pubblici: quel complesso è frutto della generosità delle singole comunità parrocchiali, che hanno contribuito all’opera attraverso sottoscrizioni spontanee sostenute anche da personalità rilevanti dell’epoca.

Una caratteristica di fondo della Chiesa padovana, come di quella veneta nel suo insieme, è quella ben spiegata da una nota diffusa nel 1859, a chiusura del primo concilio regionale: «In nome di Dio, tutti i parroci si sentano obbligati a conoscere uno per uno i propri fedeli, a offrire per loro il sacrificio, a nutrirli con la predicazione della Parola di Dio, con l’amministrazione dei sacramenti, con l’esempio di ogni opera buona». La presenza è davvero capillare nel territorio: ovunque c’è un insediamento umano, si trovano la chiesa, il campanile, la canonica. In questo contesto, il sacerdote è una figura in grado di coniugare la preparazione culturale con la capacità di parlare la lingua del popolo. Non vive confinato tra chiesa e canonica, ma prende parte attiva alla vita sociale e comunitaria, aprendo scuole per analfabeti, fondando istituti di credito contro gli usurai, dando vita a circoli per giovani, difendendo il riposo festivo contro gli eccessi di lavoro, lanciando società di mutuo soccorso.

Così la Chiesa padovana si schiera pubblicamente a difesa delle categorie più arretrate e umili, a partire dai contadini (presenti all’epoca anche nel contesto urbano), e i suoi sacerdoti si propongono tra l’altro come veri e propri maestri di agricoltura nell’insegnamento di tecniche innovative rispetto alle vecchie tradizioni consolidate nei secoli. Don Giovanni Rizzo, parroco di Salboro, fa stampare dalla Tipografia del Seminario un “Catechismo agricolo a uso dei contadini”, costruito con la formula canonica della domanda e risposta, e che si avvale della consulenza di prestigiosi esperti e docenti di agricoltura. Non solo campi, in ogni caso: a cavallo tra Ottocento e Novecento, l’attenzione strategica della Chiesa padovana è caratterizzata dal fiorire di una serie di attività apostoliche, assistenziali, economiche e sociali che esercitano una forte ricaduta sulla vita quotidiana delle popolazioni.

Da ricordare infine, nel Novecento, due realizzazioni di primo piano, dovute al vescovo Girolamo Bortignon: l’apertura dell’Opera della Provvidenza Sant’Antonio a beneficio dei disabili gravi, cui manca qualsiasi risposta pubblica, e il lancio della presenza missionaria della Chiesa padovana nel terzo mondo, a sostegno delle popolazioni più povere e indifese. Un’azione, quest’ultima, rinforzata dalla presenza e dall’opera del Cuamm, il collegio universitario aspiranti medici missionari, e che oggi con il nome di Medici con l’Africa garantisce un capillare sostegno agli abitanti di alcuni tra i Paesi più poveri del mondo.

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